Società e amministratori alla prova «indipendenza»

Talune recenti vicende societarie e il convegno della Rivista delle Società di Venezia hanno riportato al centro del dibattito il tema degli amministratori indipendenti e di minoranza. In particolare, nella prossima tornata assembleare si è posto il problema se debba essere rispettato un rapporto di proporzionalità tra amministratori eletti dalla lista di maggioranza e amministratori eletti dalla lista di minoranza.

Nell’affrontare questo e altri temi, credo si debba sempre partire dal presupposto che gli amministratori che siedono in un consiglio di amministrazione di una società quotata non hanno distinzione quanto a doveri e funzioni in relazione alla lista in cui sono eletti o ai requisiti di professionalità e indipendenza che la legge o lo statuto preveda. Sono tutti ugualmente responsabili di realizzare l’interesse della società. Nessuno di loro può parlare a nome della maggioranza o della minoranza. Nessuno può farsi interprete privilegiato del mercato o, men che meno, delle autorità di vigilanza nazionali o europee. Il vero è che gli amministratori di minoranza sono un unicum, perché sostanzialmente sono previsti solo in Italia. La scelta di introdurre l’amministratore di minoranza compiuta con la cosiddetta legge sul risparmio nel 2005 e poi con il correttivo del 2006 – lo ricordo per aver partecipato a quei lavori – era stata argomentata dalla necessità rafforzare le coalizioni societarie, che in quel momento governavano le società quotate italiane e, in particolare, il legislatore voleva dare un ruolo sinergico al secondo socio che spesso era una banca o una assicurazione. A pochi anni, ciò si è rivelato un errore di prospettiva. Oggi lo scenario è totalmente modificato, sia per lo scomporsi delle coalizioni di controllo delle società quotate italiane, sia per effetto della record date che, consentendo il voto anche a soggetti non più soci, ha garantito una partecipazione alle assemblee assai significativa. Questo, tuttavia, non giustifica che si debba riflettere la dinamica assembleare nel consiglio di amministrazione, ricreando una dialettica pensata sul paradigma del rapporto tra maggioranza e minoranza. Peraltro, anche il concetto e il ruolo di maggioranza e minoranza nelle assemblee devono essere radicalmente ripensati, atteso che la lista che esprime la minoranza degli amministratori in taluni casi ha ottenuto la maggioranza dei voti. In realtà, la distinzione che conta ormai è tra i soci stabili, tendenzialmente di lungo periodo, che hanno fatto un investimento strategico e i soci finanziari non interessati alla stabilità dell’investimento e alla gestione della società ma essenzialmente ai suoi risultati e che, quindi, non partecipano alla assemblea né danno mandato per scegliere l’amministratore delegato.

Questo spiega sia l’apparente anomalia della lista di minoranza che è maggioritaria in assemblea, sia la scelta europea di introdurre il voto multiplo ai soci stabili. Non sono, peraltro, mancate polemiche anche sul ruolo effettivo degli amministratori indipendenti nei consigli di amministrazione italiani. Guido Rossi ha recentemente ricordato che in realtà si è peggiorata la governance delle società e addirittura secondo taluni concorso a generare la crisi. Sicuramente tali giudizi possono apparire ingenerosi e infondati, ma certamente in taluni casi si sono generati sovracosti irragionevoli: se devo, ad esempio, fare rivedere da un consulente esterno scelto dagli amministratori indipendenti i risultati dell’audit – con costi talora milionari – non è meglio scegliere un capo dell’audit di fiducia del consiglio? Non a caso, ordinamenti importanti come quello tedesco non credono agli amministratori indipendenti e hanno scelto di avere board maggiormente professionalizzati. Nel nostro ordinamento mi pare si rischi una traiettoria opposta. Intanto, chi è veramente indipendente tra gli amministratori o tra i sindaci? Mi viene da dire coloro che non ricevono prima del consiglio di amministrazione la telefonata da chi li proposti nella lista e fatti eleggere, siano essi il socio di controllo, il fondo o chi ha organizzato per altri una lista. Infatti, la già ricordata legge sul risparmio, che sicuramente ha valorizzato gli amministratori indipendenti, ha tuttavia manifestato un forte scetticismo sanzionando la perdita di indipendenza con la decadenza dal consiglio. Forse la domanda che dobbiamo porci è un’altra.

Molto più produttivo e utile sarebbe interrogarsi sul sistema dei controlli, sulle sue inutili e costose duplicazioni e sovrapposizioni, in particolare nel sistema di amministrazione tradizionale. E così pure chiederci se non sia opportuna qualche revisione e precisazione alla disciplina delle parti correlate – per non esporre i consigli a inutili rischi – e così pure alle offerte pubbliche d’acquisto.